venerdì 9 novembre 2012

Usa 1972, la madre di tutte le sconfitte democratiche

Sulle autostrade americane è difficile vedere una macchina senza adesivi sul paraurti: "mio figlio è un genio", "vota Obama-Biden 2012", "Cristo risorgerà", "Io mi tengo le mie armi e i miei soldi, tu Obama tieniti il tuo 'change' " (i tuoi spiccioli). Ma nel 1973, in pieno scandalo Watergate, il bumper sticker più popolare era questo: "Non prendetevela con me, sono del Massachusetts".
Cosa c'entrava lo stato del New England con lo spionaggio ordinato da Richard Nixon? Era l'unico -su cinquanta! - in cui l'anno prima i grandi elettori avevano votato il suo avversario, George McGovern. Per i democratici, però, questo nome non incarna né integrità né onestà politica; piuttosto, è sinonimo di Caporetto e di Waterloo. Quarantasette milioni contro ventinove, 60,7% a 37,5%: la madre di tutte le sconfitte.
Nel 1972, quando si ricandidò, Richard Nixon era un presidente capace, che in politica estera poteva rivendicare successi storici come gli Accordi non proliferazione con l'Urss, ma non era amato. Il suo soprannome era Evil Dick, Richard il diabolico, e alla parata di inaugurazione, quattro anni prima, la sua limousine blindata era stata bombardata da una pioggia di lattine, bottiglie di birra e sassi.
George McGovern invece aveva passato gli ultimi anni a scrivere la riforma dei partiti che, nel tentativo di dare più voce alla base, avrebbe trasformato per sempre le convention, rendendo la nomination molto più vincolata ai risultati delle primarie piuttosto che agli accordi sottobanco dei delegati.
Una svolta accolta con entusiasmo dall'elettorato, molto meno dai ras del partito, che infatti alle primarie sostennero Ed Muskie. Quando quest'ultimo però si mise a piangere in pubblico (per via di una lettera, falsa, che lo accusava di discriminare -udite udite- tutti gli americani di origini franco-canadesi), i big del partito lo fecero fuori, e la corsa si riaprì.
Quell'anno nei comitati elettorali si aggirava uno spettro sconosciuto: il voto giovanile. La maggiore età era stata abbassata da ventuno a diciotto anni, e quella che per molti era una grande incognita poteva essere la grande opportunità per McGovern, l'unico che si arrischiò a sostenere apertamente l'amnistia per chi aveva bruciato la cartolina militare o era scappati all'estero per non finire in Vietnam. 
"Se dai un giocattolo nuovo a venticinque milioni di persone, è probabile che vogliano provarlo almeno una volta" scriveva Hunter S. Thompson, inviato per Rolling Stone sulla campaign trail (in un'epoca in cui gli uffici accrediti rispondevano "rolling che?")
A movimentare la campagna elettorale di quell'anno fu anche l'arresto, il 17 giugno, di cinque persone che tentavano di installare cimici al quartier generale del partito democratico.
Nonostante uno degli arrestati fosse vicino ai repubblicani, e un altro fosse un agente in pensione dell'FBI, a Nixon bastò negare "categoricamente" che membri del suo gabinetto fossero dietro a quello manovre per scrollarsi i sospetti di dosso. Né il partito democratico provò a cavalcare l'inchiesta, troppo occupato dalle beghe interne in vista della Convention di Miami.
In un certo senso, la riforma di McGovern aveva avuto successo: ci fu la prima candidata afroamericana, il primo asiatico (con la guerra in Vietnman ancora in corso) ma fondamentalmente la convention si tenne nel caos più totale, con quindici candidati in corsa per la nomination.
McGovern riuscì a vincere con un vero e proprio tatticismo, perdendo un voto a chiamata per non far coalizzare contro di lui gli avversari e vincendo quello successivo, decisivo.
Nel libro "Paura e disgusto in campagna elettorale", Thomspon scrive che "cercare di seguire la realtà bizantina di quella convention era come se qualcuno che non ha mai giocato a scacchi volesse capire la diretta televisiva del duello Fisher-Spassky". Quasi nessuno dei giornalisti presenti (abituati a cercare scoop nei corridoi, ma poco familiari con i regolamenti) capì cos'era accaduto. "Walter Cronkite vide verde ma lo chiamò rosso, Chancellor optò per il giallo e la Abc aveva già interrotto le trasmissioni".
McGovern aveva vinto ma non aveva dalla sua i maggiorenti del partito (carichi da novanta come Dailey, storico sindaco di Chicago e capo di una portentosa macchina per la raccolta fondi), e la sua debolezza venne fuori all'istante, appena si trattò di scegliere il candidato vice.
I ras del partito avevano un ottimo nome in mente, ma forse nelle orecchie dell'interessato ronzava la regola del "non c'è due senza tre": Ted Kennedy aveva già rifiutato di candidarsi alle primarie, e ribadendo che al Senato stava più che bene, rifiutò anche di fare il numero due di McGovern.
Furono fatti decine di nomi (tra cui Mao Tse Tung e Martha Mitchell, la moglie del capo della campagna di Nixon, che qualche settimana prima si era dichiarata "prigioniera politica" in un albergo, segregata affinché non spifferasse nulla) e alla fine di uno scrutinio estenuante si trovò un accordo sul senatore Thomas Eagleton.
Quando salì sul palco con McGovern per il discorso di accettazione erano le tre del mattino sulla costa est e mezzanotte su quella ovest. Per Thompson, "se c'era ancora qualche americano sintonizzato sulla convention, era propbabilmente troppo ubriaco o in preda ad altri fumi per riconoscerli".
Poco male, perché Eagleton fu presto rimpiazzato. Buona parte dei giornalisti sapeva della sua fama di ubriacone e del suo passato di esaurimenti nervosi, ma tutti si guardarono bene dall'avvisare lo staff di McGovern. Quando la storia vene fuori, erano tutti furiosi con McGovern. Alla fine il partito convinse Sargent Shriver, cognato di JFK (e padre di Marie, che sposerà poi Arnold Schwarznegger): un santino di serie B, ma pure sempre un santino.
La campagna però era tutta in salita. La stampa stava dalla parte di Nixon: incassò 753 endorsement dai giornali, McGovern appena 56. Forse era più spirito di conservazione che passione genuina: nei sondaggi il presidente uscente era in vantaggio, e tutti sapevano quanto fosse vendicativo. Nel 1968, appena eletto, negò gli accrediti a chi lo aveva attaccato in campagna elettorale. Per lavorare insomma, bisognava andarci con i guanti.
Fanno eccezione due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, che grazie alle rivelazioni di una "gola profonda" tengono i riflettori accessi sull'inchiesta. A ottobre scrivono che per l'FBI i tentativi di scasso al Watergate Hotel sono parte di una campagna di sabotaggio e spionaggio che fa a capo a Nixon, ma l'opinione pubblica non sembra farci caso, e un mese dopo Nixon è rieletto con oltre il 60% dei voti.
Nei primi mesi di governo, però, vengono arrestati, condannati o licenziati uno ad uno "tutti gli uomini del presidente". Nel luglio 1973 una fonte rivela che il presidente ha registrato molte conversazioni, e il braccio di ferro tra la Casa Bianca e la commissione di inchiesta per la consegna dei nastri durerà un anno.
Il 5 agosto viene reso noto il testo di una conversazione di Nixon di due anni prima, nei giorni degli arresti: "a mia insaputa" è una scusa che non regge più. Il Congresso preme per l'impeachment, ma Nixon si risparmia l'agonia: la lettera di dimissioni -implicita ammissione di colpevolezza- porta la data del 9 agosto 1974.
Il voltafaccia collettivo dell'America, che attaccava sul paraurti la propria excusatio non petita -non prendetevela con me, non l'ho votato- non fu unico nel suo genere. L'insistenza dei giornalisti del Washington Post forse salvò la faccia alla categoria, quasi addomesticata da Nixon durante la prima presidenza, ma il dubbio di aver abdicato per troppo tempo dal proprio ruolo di cane da guardia era difficile da fugare.
Nixon, che sino a qualche mese prima in conferenza stampa ribadiva "non sono un truffatore", era stato accusato di aver accettato fondi illeciti già vent'anni prima, nel 1952, quando correva come vice presidente. Anche allora era andato in tv per difendersi: "L'unico regalo che mi è stato fatto in campagna elettorale è un cane per i miei figli, che mi è stato spedito dal Texas. È bianco e nero e mia figlia lo ha chiamato Checkers (scacchi), e non mi importa di quello che dicono, ma io me lo tengo".

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